Siamo in alta Val Pellice in una fredda notte dell’ultimo autunno.
L’impetuoso corso del giovane fiume si snoda tra le rocce con balze e cascate mentre noi camminiamo sul sentiero che strapiomba sul suo letto. La neve gelata scricchiola sotto le ciaspole. Le nostre puntiformi pile frontali illuminano i fiabeschi candelotti di ghiaccio che popolano gli anfratti delle pareti di pietra. Sopra di noi, una coperta di milioni di stelle accompagna il nostro incedere. La luna ormai pronta a diventare nuova è come una virgola nel cielo.
C’è vento. Un vento freddo che sferza i nostri volti, sibilando attraverso i fori dei bastoncini da trekking una ancestrale melodia che si rinforza con il suono argentino del Pellice e l’ondeggiare dei rami nudi degli alberi.
In questa vastità di elementi primordiali noi saliamo lentamente sulla neve. Per gli occhi non umani che ci osservano, non visti, siamo una breve linea discontinua di puntini luminosi, un serpentone di giacche colorate diretto più in alto.
Salire di notte col freddo ed una neve rada e gelata è più faticoso. Mi concentro, cercando l’equilibrio fra il ritmo dei passi, il battito del cuore e la lunghezza del respiro, quindi rallento quanto basta per non avere il fiatone ed il cuore in gola, mi aiuto spingendo con i bastoncini, così da far lavorare tutto il corpo. Il mio obiettivo è stare bene, è ascoltare i segnali del mio fisico e trovare la sua migliore armonia in base al tipo di percorso ed alle condizioni esterne. Entrare in sintonia non solo con la natura intorno a me, ma anche con quella dentro di me, è quello che io cerco.
La splendida conca del Prà con il rifugio Willy Jervis sono la nostra meta. Il Prà è nel bagaglio esperienziale di intere generazioni, e l’ampia conca è stata la fortuna di pastori, il passaggio obbligato di esuli, invasori e contrabbandieri, il luogo di sosta per lavoratori stagionali verso la Francia. E la si continua a percorrere di notte e di giorno, con la neve e sotto il sole, per cercare il silenzio o gli echi di voci lontane.
La sagoma del rifugio è la porta di accesso a questa suggestiva spianata, racchiusa da un anfiteatro di ripide montagne. Nella notte, le luci che occhieggiano dalle persiane gialle e rosse sono come un faro per noi viandanti che approdiamo qui. L’odore di cibo buono ed il calore della stufa che si sprigionano quando si apre la porta ci fanno lasciare alle spalle stanchezza e affanni. E il freddo patito nella salita si scorda grazie alla tavola imbandita e alla genuina complicità che solo in un rifugio in montagna si riesce a creare in breve tempo.
La via lattea scende verticale sulla neve della conca. Nella notte il vento soffia forte e mugghia sordo sulle pareti del rifugio.
Un cielo rosa saluta il nuovo giorno. E’ molto presto, e decido di uscire per godermi il silenzio del primo mattino. La bandiera italiana davanti al rifugio sventola al vento. Il cane dei gestori scorrazza bianco sulla bianca distesa di neve. Le ordinate cataste di legno giacciono allineate sotto le colorate persiane sul ballatoio. Le nostre ciaspole colorano allegre la balaustra su cui sono poggiate. Grossi tronchi dai multiformi strati di anelli concentrici spiccano nella neve e nel cielo color piombo. Perle di ghiaccio stratificato decorano la vasca della fontana davanti al rifugio. Tre vie d’acqua riescono ancora a zampillare dai rubinetti prima che la morsa del gelo li trasformi in sculture di ghiaccio.
Il vento continua a soffiare vigoroso, sollevando e spostando strati di neve che mulinano leggeri nell’aria come una pioggia di zucchero a velo. Sarà dura camminare così, ma la voglia di esplorare la conca innevata prevale sul disagio delle raffiche.
Dopo la colazione ci avventuriamo nella conca del Prà. Cascate di ghiaccio si palesano dalle fessure delle montagne che fiancheggiamo. Sono azzurre, quasi come se avessero bevuto il colore del cielo tanto da lasciarlo grigio.
Il Pellice disegna una traccia sinuosa sulla neve, scorrendo placido nel piatto Prà. Alti, spogli e neri larici proiettano le loro ombre rettilinee sulla neve bianca decorata ad onde dal vento. Curve e linee. Bianco e nero. Un quadro astratto che cambia a seconda dell’umore degli Elementi: luce, aria, acqua. In questo scenario bicromatico il giallo rifugio Jervis è l’unica minuscola nota di colore.
Avanzando nella conca, una circoscritta zona gelata crea specchi di ghiaccio che brillano grazie agli sporadici e rari raggi di sole. Sembra quasi il ricordo dell’antico lago di cui parlano le leggende della zona. Si narra infatti che un tempo questa conca fosse in realtà un profondo e limpido lago di montagna, dimora delle fate del Prà, che custodivano gelosamente quel posto magico.
Un giorno un pastore lo scoprì per caso, e divulgò la notizia ai valligiani che numerosi portarono i loro animali a pascolare in quelle verdi praterie. Le fate decisero di abbandonare per sempre il luogo, ma non prima di aver punito gli abitanti della valle: esse frantumarono il poderoso argine che conteneva il lago, causando un’immane inondazione, mentre le rocce, trascinate fin nella pianura dall’irruenza dell’acqua, andarono a formare la Rocca di Cavour.
Non ci è dato sapere il fondo di verità legato a questa storia, ma i riflessi del ghiaccio sono affascinanti.
Proseguendo il cammino incontriamo le baite di un alpeggio, tutte raggruppate insieme sotto il fianco della montagna, un gregge di abitazioni simile a un presepe. Nei pressi, tracce di alberi divelti ci ricordano che la neve slavina spesso giù nella conca dalle scoscese pareti rocciose. Siamo fortunati ad essere qui oggi. Proprio a causa della conformazione di questo luogo, per motivi di sicurezza spesso viene sconsigliata la salita al Pra: il sentiero è infatti incastonato fra zone ripide soggette a valanghe e lo strapiombo sul Pellice. Mi godo questo momento zigzagando sulla neve fuori traccia, in mezzo ai larici, cercando gli scorci più suggestivi del paesaggio intorno a me.
Una volta in fondo al pianoro, è tempo di rientrare in rifugio lungo la via dell’andata. Il vento si è di nuovo alzato. Mentre pranziamo inizia a piovere e poi a nevischiare, per poi smettere fortunatamente nell’arco di un’ora: la prospettiva di scendere sotto la pioggia non è mai allettante.
Partiamo nel primo pomeriggio, quando gli ultimi raggi di sole illuminano radenti il Prà, ed intraprendiamo la via dell’andata.
Con la luce ci è possibile cogliere dettagli che ci erano sfuggiti nella notte precedente.
I larici, svestiti gli aghi, rigano verticali le dritte pareti di roccia. Solo pochi sono ancora avvolti nell’autunnale livrea d’oro, e si affacciano vezzosi sulle sponde del corso del Pellice, come per berne le cascatelle che si aprono in mezzo alla neve.
Sicuramente la cascata più suggestiva è il Pis, un salto verticale di decine di metri che scroscia fragoroso sulle rocce scure ricoperte di stalattiti di ghiaccio. E’ impossibile non fermarsi ad ammirarne la potenza, e perdersi nell’inseguire le traiettorie dei vari rivoli d’acqua che si congiungono e si separano miriadi di volte.
Altri colpi d’occhio sul corso del Pellice catturano infine la nostra attenzione, poco prima di raggiungere le nostre auto, felici per queste due belle giornate, ma giustamente stanchi. Sta calando il sole, e un grosso faggio dalle foglie rosse riesce ancora ad illuminarsi con gli ultimi raggi di luce, sorprendendoci.
Testo di Elena Cischino. Tutti i diritti sono riservati.
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