Non più collina e non ancora montagna, con la sua mole imponente il Mombracco unisce i paesaggi orizzontali della piana solcata da un giovane Po e le terre verticali della catena del Monviso. Geologicamente più antico delle Alpi che gli guardano le spalle, questo massiccio è da sempre avvolto da un alone di leggende e misteri, legati a masche, streghe ed altri esseri soprannaturali. Descritto cinquecento anni fa da Leonardo Da Vinci, disseminato da incisioni rupestri che si perdono nella notte dei tempi, trasformato dal duro lavoro dell’uomo per cavarne le pietre, il Bracco è amato dalle genti che abitano il saluzzese quasi quanto il Viso. Camminare sul Mombracco è un’esperienza concreta che permette di ritrovare il tempo ed il ritmo di antichi passi, compiuti da sempre da chi quest’altura l’ha vissuta, legandosi ad essa per lavorare, mangiare e sopravvivere. In inverno, con la neve e di notte, queste suggestioni diventano quasi mistiche, e muoversi sui sentieri con le ciaspole è quasi come compiere un percorso interiore e riuscire a colloquiare con la propria anima. Un’anima che viene messa a nudo nel freddo biancore della neve illuminato dalla fioca luce delle lampade frontali, nel silenzio dell’oscurità avvolgente. Il mio itinerario ha avuto inizio al tramonto dalla Trappa del Mombracco, edificio religioso con più di ottocento anni di storia alle spalle. Gli ultimi raggi di sole stavano scomparendo dietro alla catena del Re di Pietra, e la vasta pianura ancora ricoperta dalla neve si tingeva di rosa per pochi minuti. Con i soli occhi si potevano distinguere il noto complesso dell’Abbazia di Staffarda, poi gli abitati di Saluzzo, Moretta, Torino con la sua collina e la basilica di Superga e, più vicino, le colline della Val Bronda e verso il cuneese la Bisalta. Le ombre si allungavano, e quella imponente del Mombracco faceva scendere rapidamente l’oscurità sul paesaggio ai suoi piedi. Il nero che via via si diffondeva era ancora per un po’ intervallato dalla neve, così che i campi diventavano una enorme scacchiera sulla quale gli alberi e gli edifici erano i fanti, gli alfieri e le pedine, immobili protagonisti di un gigantesco ed eterno gioco degli scacchi. Poi arrivava l’ora blu, e con essa le prime luci sulla pianura e sugli abitati a ridosso della catena del Monviso. La Trappa, nella sua grigia semplicità di pietra emergeva statuaria da una coltre nevosa, due soli lumini ad accendere un paio di finestre, un albero spoglio alto quasi quanto lei a farle compagnia. Quindi il blu sfumava nel grigio ed infine nel nero. La notte era sopraggiunta, e con essa le stelle, sempre più luminose man mano che il buio aumentava. Intere costellazioni popolavano il cielo, mentre distese di luci artificiali rivestivano la pianura. Astri e lampadine si incontravano fittiziamente all’orizzonte sfumando i propri confini, nell’illusione di potersi rispecchiare l’una nell’altra e fondersi insieme. Il sentiero iniziava a salire lasciando la Trappa, la pianura ed immergendosi nel bosco. Le ciaspole facevano scricchiolare la neve sotto ai passi, le lampade frontali erano pronte ma ancora spente. Infatti nell’oscurità gli occhi devono abituarsi a vedere in modo diverso. Senza luce la visuale è di pochi metri e, passati i primi minuti nei quali si ha l’impressione di essere ciechi, grazie all’istinto i sensi si acuiscono, facendoci cogliere dettagli immediatamente vicini a noi che, durante il giorno, passerebbero inosservati per via del nostro più ampio campo visivo. Ecco quindi apparire sul ciglio del sentiero file di candelotti di ghiaccio che parevano un arsenale di armi bianche pronte a difendere un regno di fantasia. Ecco ora gli alberi scheletrici e spogli, ecco un tappeto di aghi marroni che tappezzavano parte della neve…Giunto il momento di accendere le pile, la traccia da seguire diventava una strada spettrale, di un bianco che sfumava prospetticamente nel grigio e poi nel nero, celando tutto ciò che stava oltre. La forma del percorso andava strappata passo dopo passo al buio, scoprendo ad ogni metro nuovi alberi di colpo rischiarati dalle lampade. A tratti il bosco apriva il sipario sul Monviso, punteggiato dalle luci di Paesana e Crissolo, il noto profilo più scuro dell’oscurità e quindi distaccato da essa. La strada saliva sempre di più, mentre gli occhi coglievano altri dettagli: foglie morte sulla neve, qualche impronta di animale, tronchi scortecciati dai caprioli di passaggio… Camminando, si arrivava infine ad un crinale, solcato da un vento leggero ma gelido. Qui una croce enorme catturava lo sguardo e sbarrava il passo: la croce di Envie, purtroppo spenta. Una croce che vegliava come una sentinella sulla vasta pianura illuminata da milioni di piccole lampadine. Una croce buia ma ben visibile, che illuminava gli astanti riflettendo la fioca luce delle lampade frontali, in attesa di una falce di luna che tardava a sorgere. Un ultimo sguardo verso il Monviso, ormai appena distinguibile nella notte, poi la discesa in mezzo alla neve per ritornare alla Trappa, ombra nera nello scuro cielo, per sedersi infine a tavola e gustare una buona cena.

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