Scrivere di paesaggio è anche pensare alle storie di uomini e animali che hanno trasformato e plasmato un territorio (leggi anche Alpeggi: una biodiversità radicata nei millenni), spesso facendo scelte estreme e anche con esiti oggi forse difficili da comprendere fino in fondo nella loro interezza. La conoscenza ci guida nel cercare di capire ciò che nasce come necessità e quello che diventa solo sfruttamento economico secondo criteri di poca o nessuna sostenibilità. Oggi parliamo tanto di sostenibilità perché siamo giunti a superare il limite nell’uso delle risorse del pianeta per pura necessità, siamo andati oltre, verso logiche di guadagno a discapito del paesaggio, della cultura, dell’ambiente, della vita e della coerenza. Per questo vorrei tornare indietro nel tempo, per scoprire la vita, oggi probabilmente considerata estrema, di una comunità monastica trasferitasi sul Montebracco o Mombracco tra la valle Po e la valle Infernotto (spesso i toponimi sono veramente indicativi del luogo!), tra Barge e Envie; una comunità di monaci certosini alla ricerca di un luogo eremitico dove stabilire la loro casa e dove poter predisporre scelte per un’economia che garantisse la sopravvivenza al piccolo nucleo di religiosi (già perché non era necessario creare surplus economico, bastava essere il più possibile autosufficienti, almeno in una fase iniziale). La prima comunità certosina del Mombracco era veramente esigua; a fronte del numero massimo stabilito per ogni monastero di 12 monaci più il priore, a Mombracco nel 1342 erano solo due, il vicario Raimondino di Mondovì e Giovanni Candelario di Chieri, nonostante fossero gli anni nei quali l’espansione patrimoniale della comunità anche rivolta alla pianura risulta essere piuttosto intensa. Nel 1384 la comunità era costituita da 4 monaci oltre al priore. A questi si aggiungevano due conversi, laici (non erano in effetti né chierici né monaci) che si occupavano delle mansioni più impegnative o di quelle che richiedevano spostamenti lunghi come seguire i raccolti o le greggi. E’ difficile oggi ritrovare nell’insediamento conservato sul Mombracco una parte destinata ai conversi come avveniva usualmente nelle certose, dove i fratelli laici vivevano nella casa “bassa” (la correria) mentre i monaci nell’eremo della casa “alta” dove si trovava la chiesa principale del monastero. Una comunità ridotta quindi che stenta a definire la sua presenza sul Mombracco; in effetti solo nel 1282 l’ordine certosino ne entrò in possesso creando una propria domus, assorbendo le esperienze religiose insediatesi in precedenza nel luogo, aderendo ad un modello di vita eremitica originale lontana dalla tradizione dei grandi monasteri benedettini medievali. Il percorso di questa prima comunità ebbe però esistenza travagliata e difficile passando per un lungo periodo di abbandono, e risorgendo nel 1320 grazie alla pietà e all’interesse di due uomini della famiglia dei marchesi di Saluzzo, Bonifacio e Giorgio che investirono fondi per recuperare la certosa in grave difficoltà.
I monaci che vivono all’interno della certosa perseguono un ideale molto rigoroso di ascesi e di solitudine; la vita del certosino è dedicata alla contemplazione, alla penitenza, allo studio, alla preghiera e alla celebrazione della liturgia. Il lavoro manuale è praticato in un piccolo orto a disposizione di ogni confratello nel perimetro della propria cella. I religiosi trascorrono la maggior parte della loro esistenza in solitudine, all’interno della cella dove consumano i loro pasti, ad eccezione del pranzo della domenica o in occasioni particolari. Altri momenti nei quali la comunità si riunisce sono per la celebrazione del culto nella chiesa maggiore e le riunioni nella sala capitolare. Il principio della scelta dell’insediamento monastico in luoghi remoti e disabitati, diffuso nei primi cenobi cistercensi e certosini, trova nel paesaggio del Montebracco un luogo ideale per una certosa agli inizi del XIV secolo. La natura è parte integrante dell’esperienza certosina: san Bruno in una sua lettera a Rodolfo il Verde si esprime in termini lirici per descrivere il luogo scelto per il nuovo modello di vita monastica nel sud d’Italia: “come ti potrò parlare degnamente dell’amenità di questo luogo, dell’aria temperata e salubre, dell’ampia e graziosa pianura che si estende tra le montagne, dove verdeggiano i prati e fioriscono i pascoli?”. Le esigenze spirituali delle prime comunità così ben racchiuse nelle parole di San Bruno, tra silenzio e meditazione, si rispecchiano nelle scelte dei luoghi e delle architetture delle prime certose di montagna, e i casi di Montebenedetto e Mombracco ne sono ancora una testimonianza diretta. I paesaggi privi di insediamenti e difficilmente accessibili accolgono i primi gruppi di religiosi che si adattano ai luoghi costruendo architetture semplici con i materiali a disposizione. L’architettura povera nelle decorazioni, la polemica contro l’impiego di materiali preziosi e l’assenza di rappresentazioni artistiche figurate, costituiscono temi cari a diversi ordini religiosi nel XII secolo, diventano elementi cardine delle scelte delle prime certose. Le aree alpine costituiscono lo spazio ideale per la ricerca del “deserto” e forniscono i principali materiali da costruzione, pietra e legno. Le lose in pietra caratterizzano ancora i tetti della chiesa e di molti degli spazi circostanti e i muri sono stati costruiti recuperando le pietre trovate sul terreno; poche di queste provengono dalle vicine cave di quarzite.
Oggi l’antica certosa e poi trappa (alla fine del XVIII secolo) del Mombracco, percorrendo il portico con le basse volte in pietra e guardando la semplicità della chiesa con una unica aula e un campanile di dimensioni contenute, mantiene ancora traccia dell’antica spiritualità certosina, pur nelle trasformazioni che hanno interessato tutti gli edifici monastici racchiusi all’interno del recinto murario ancora ben conservato. La realizzazione di case per le vacanze frutto di quell’architettura spontanea che tanto maldestramente caratterizza le nostre vallate, ha sostituito tutti gli annessi agricoli ancora visibili nelle cartoline della fine del secolo scorso. Peccato che non si sia riuscito a prevedere un loro riuso maggiormente compatibile con il luogo, ma nessun piano di recupero attento e coordinato è stato proposto e attuato per un luogo così ricco di spiritualità come la certosa del Mombracco, purtroppo troppo presto abbandonata da una comunità monastica che avrebbe mantenuto quel “fascino dell’eremo” ancora rintracciabile nelle fredde giornate invernali, quando la neve ammorbidisce i profili del paesaggio.
L’invito è a scoprire la certosa del Mombracco con una visita attenta e rispettosa per ritrovare questi luoghi così carichi di storia, di lavoro e di preghiera, magari non a ferragosto, ma in periodi più calmi e rilassati passeggiando tra i folti boschi che contornano l’antica complesso religioso per assaporare e ritrovare il “grande silenzio”.
Testo: Silvia Beltramo
Consigli per la lettura:
Il fascino dell’eremo. Asceti, certosini e trappisti sul Mombracco nei secoli XIII-XVIII, a cura di Rinaldo Comba, Bollettino della Società per gli studi storici, archeologici ed artistici della Provincia di Cuneo, Cuneo 2010
Per rivivere il mondo certosino, il film Il grande silenzio (Die grosse Stille, 2005) girato nella Grande Chartreuse di Grenoble nell’isolamento del Massiccio centrale francese, seguendo per anni la vita dei monaci certosini.
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