Sempre più spesso camminando nelle valli si incontrano luoghi dove l’abbandono da parte dell’uomo risulta evidente. Nei sentieri dove un tempo scorreva la vita delle genti di montagna ora impera il silenzio e la vegetazione, prima tenuta a bada, si avvia velocemente a riprendere il possesso degli spazi, case comprese. Non solo alpeggi o meire di alta montagna, ma cascine isolate, anche piccole frazioni o borgate, ciabot ed essiccatoi per le castagne, case ed edifici di lavoro anche a quote decisamente collinari vanno, più o meno lentamente, disgregandosi. I tetti a lose crollati a causa dei cedimenti delle travi portanti marcite con lo stillicidio delle gocce d’acqua piovana infiltrate negli anni, espongono a loro volta le murature, composte da pietre e terra, alle intemperie e al lento disfacimento. Insieme agli insediamenti abitativi scompaiono le geometrie, i segni che tracciavano le divisioni dei terreni, le parcellizzazioni del suolo agrario che lungo i pendii voleva dire fatica nera. I piccoli fazzoletti di terreno, che consentivano alle tante genti a mala pena di sopravvivere, sorretti e a volte cintati da milioni di sassi amorevolmente, o inevitabilmente, sovrapposti a formare il reticolo di pietra, i mitici muretti a secco, più precisamente a terra, vanno scomparendo. Le aree prative, dei vecchi alpeggi montani, cedono il posto a boschi naturali e quelli
produttivi sono sempre più aggrediti dall’incolto. Questo mondo dei vinti, tanto raccontato da Nuto Revelli, continua la sua lenta agonia e salvo casi di sparuto attivismo, vedi il caso di Ostana in val Po, non sembra riceve nessun soccorso lungimirante al suo sos ormai 60 ennale. Nel generale disinteresse della politica una risorsa immensa, le Alpi e gli Appennini, capace di accogliere e sfamare storicamente milioni di persone è dimenticata, se non per quegli aspetti e quei luoghi legati alla presenza di un turismo a volte di rapina, quasi sempre pesante per l’ambiente e distruttivo della storia e tradizioni dei luoghi.
Ma come sia possibile far tornare la vita in queste terre pare un rebus insoluto, altre sono sempre le priorità, le grandi opere a cui i governi attendono con il fervore delle ruspe e del cemento. Senza avere la pretesa di risolvere questo problema complesso, nella certezza però che ricreare le comunità scomparse sarà il lavoro del nostro futuro, poniamo alcune domande. Perché non intraprendere un progetto nazionale di ripopolamento delle aree “depresse”, collinari e montane? Perché non spendere dei soldi veri per un piano di reinserimenti di persone, italiani o stranieri, che si impegni a vivere nel territorio in case sostenibili e unite in rete da progetti di valorizzazione delle risorse e prodotti locali? Perché non coinvolgere nella riqualificazione e recupero degli insediamenti abitativi delle migliori menti e ricercatori così da definire un piano chiaro, sostenibile e rispettoso di intervento? Perché non realizzare case sostenibili con impianti solari, e altre misure di risparmio energetico, così da potenziare esponenzialmente la produzione nazionale di energia solare? Perché non chiedere in cambio alle persone che accettano di tornare a vivere nei luoghi la manutenzione del territorio, la sua cura, di essere i custodi del paesaggio? Perché non pensare che questo scambio, casa/lavoro possa essere visto come un reddito di cittadinanza reale? Prima che la disoccupazione nazionale, in virtù della scomparsa e robotizzazione del lavoro, salga a cifre mostruose possiamo ragionare sulle idee di futuro?
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