Per raccontare cosa sia la merenda sinoira oggi è importante fare un passo indietro nel tempo e ravvivare quell’affresco di vita che era la società contadina del Piemonte agricolo e preindustriale. Un mondo, non particolarmente diverso dalle altre realtà della penisola, dove la dura giornata in campagna iniziava alle prime luci dell’alba, ma anche prima del sorgere del sole, e si protraeva, in particolare nella stagione estiva, fino a sera inoltrata.
Un mondo difficile, di stenti e di patimenti, basta ricordare che a inizio Ottocento la vita media in Piemonte era di soli 34 anni, che basava la propria sussistenza su pochi generi alimentari presenti. Fu la patata, tubero proveniente dal Perù e dalla Bolivia e diffusasi solo a inizio ‘800 in Piemonte, ad essere la regina assoluta, salvatrice d’intere generazioni dalla fame. Diffusasi grazie alla tenacia di un agronomo francese, Augusto Parmentier, che la cucinò per un banchetto del re Luigi XVI; e a seguito del successo delle portate la fama del prodotto si diffuse, anche se con lentezza e difficoltà. E poi la segale e la castagna (il castagno definito “l’albero del pane” dalle genti di montagna) per le popolazioni delle valli alpine, e la polenta, per chi poteva coltivare anche il mais, anche quest’ultimo immigrato dalle Americhe. A questo scarno paniere si aggiungevano però la conoscenza e la maestria, così per le tante erbe selvatiche utili a creare delle semplici ma preziose pietanze o condimenti, o per la capacità di trasformazione dei cibi (formaggi e prosciutti e insaccati).
Ma torniamo alla nostra merenda sinoira; la giornata del contadino seguiva il ritmo delle stagioni e, durante quella estiva, il lavoro nei campi si interrompeva per brevi pasti, in cui ci si riposava tra una fatica e l’altra.
Chi poteva a pranzo tornava a casa, ma se il luogo di lavoro era distante allora si portava dietro il fazzoletto che conteneva il cibo per sfamarsi. Nel pomeriggio quando d’estate il sole è ancora alto, e quando il lavoro lo richiedeva il contadino interrompeva le proprie faccende e prima di sera, da qui nasce la merenda sinoira, ossia una merenda che sostituisce o anticipa la cena, si rifocillava e dissetava nuovamente.
Va da se che la merenda sinoira si inseriva nelle attività agricole della bella stagione così come per altro recita un antico proverbio piemontese:
“San Giusep a porta la marenda ant el fassolet, San Michel a porta la marenda an ciel
(San Giuseppe porta la merenda nel fazzoletto, San Michele porta la merenda in cielo)”.
Ricordiamo che San Giuseppe si festeggia e fine marzo, mentre San Michele a fine settembre, periodo che racchiude tutta la primavera e tutta l’estate.
Nel tempo poi, con il cambiare della società e del lavoro, la merenda sinoira si è trasformata in un appuntamento da osteria, dopo una partita alle bocce o dopo una escursione in montagna, un momento più conviviale, dove al frugale mangiare contadino si affiancano anche piatti più lavorati che vanno a sostituire decisamente la cena; quindi affettati, salame e lardo in primis, le acciughe al verde (qualcuno ricorda la Via del Sale e il Buco di Viso? O gli acciugai della val Maira?), i tomini al verde o elettrici (formaggi accompagnati da una salsa verde e da peperoncino), peperoni al tonno, insalata russa, giardiniera e vitello tonnato, la frittata di luvertin (luppolo selvatico) e per finire un bel dolce, il bunet, o il persi pien (pesche ripiene) e o qualche buona frittella di castagne con la marmellata ai ramassin (un piacere che sovente troviamo all’Alpino Osteria). Il tutto naturalmente accompagnato dal vino piemontese per eccellenza, il dolcetto o la barbera, fermo o vivace purché di discreta gradazione.
Ed è così che anche nelle valli del Monviso dopo le nostre gite ci piace fermarci in uno dei nostri “sapienti osti” per assaggiare quei prodotti o quelle specialità che la tradizione ci ha saputo tramandare, facendo onore alla memoria del duro lavoro delle donne e degli uomini di quell’ormai antico mondo contadino, un modo per ricordarci che ciò che siamo oggi siamo lo dobbiamo anche alle loro fatiche.
Raccontava Giovanni Battista Ponso a Nuto Revelli: “A partire dalla montagna alta a venire giù era tutto rosso di grano e di segala, tutto lavorato, tutto zappato a mano. A sant’Anna si finiva i fieni e si incominciava a tagliare il grano. Chi portava giù la roba con l’asino e chi sulla schiena. Un anno, con buon’anima di mio padre, abbiamo portato giù centosedici fagotti sulla schiena, fagotti di cinquanta sessanta chili l’uno, ogni viaggio dai campi a qui durava mezz’ora.”
Consigli per la lettura
Nuto Revelli – Il Mondo dei vinti, Torino 1977
Enza Cavallero – I malnutrì, Torino 2005
Lascia un commento