Mentre le api si saziano di salici (ma anche di violette, primule e dei primi fiori dei prati) già si prepara una fioritura più appariscente ad aprire la primavera. Incontriamo così un altro genere botanico di alberi di interesse apistico. A dire il vero l’interesse per queste piante è prima di tutto frutticolo: appartengono infatti al genere Prunus il mandorlo, il pesco, l’albicocco, il ciliegio, l’amareno, i vari susini ed anche il lauroceraso che però è una siepe.
Sono della grande famiglia delle Rosacee ed hanno fiori bianchi o rosati, grandi come monete, a cinque petali e molto ricchi di polline e nettare.
Il primo a fiorire è il mandorlo (Prunus dulcis), ma sulle nostre montagne ce ne sono pochi così la prima fioritura spettacolare è quella dell’albicocco. L’albicocco (Prunus armeniaca) annuncia la fioritura gonfiando boccioli che coprono i rami di piccole gemme lucide rosso rubino. L’albero ha rami abbastanza lunghi e sottili che ricoperti di fiori si trasformeranno in ghirlande di un bianco vagamente rosato. Pare che l’unico Prunus veramente europeo sia il P. domestica che coltiviamo ancora per le prugne mentre gli altri ci sono giunti dall’oriente. Il nome botanico dell’albicocco lo dice originario dell’Armenia perché da lì lo importarono i Romani. Per gli Armeni è tuttora un simbolo nazionale e dal suo legno torniscono il duduk il clarinetto armeno dal suono malinconico e pastoso. Le montagne armene sono però una tappa del viaggio che portò a noi quest’albero che nasce sulle montagne del Tien Shan tra la Cina ed il Kirghizistan.
Il successo dell’albero è dovuto certamente ai frutti, che a fine primavera sono consumati sia freschi che trasformati in succhi, confetture o semplicemente essiccati. I noccioli contengono al loro interno le armelline simili alle mandorle, ma più profumate ed amare, sono ingredienti di alcune ricette di dolci e liquori a cui conferiscono il tipico gusto di amaretto. Sulle nostre montagne non lo troviamo oltre i 500 m. s.l.m. e solo nelle parti più calde dei fondovalle perché la sua precoce fioritura lo espone al rischio delle gelate primaverili. Una delle località che per il clima hanno accolto l’albicocco sono le pendici affacciate sulla pianura all’imbocco della Valle Varaita culla d’origine dell’antica varietà Tonda di Costigliole dai frutti non grandi, tondi e… color albicocca che sarebbe arancione chiaro con un ché di rosato. Oggi questo colore più che sui banchi del fruttivendolo è facile trovarlo in merceria dove “color albicocca” ha ancora un significato perché le albicocche oggi in commercio sono sempre più rosse e grandi per assecondare il lato bestiale ed istintivo di noi consumatori: è più forte di noi ma un frutto rosso e grande lo compriamo più volentieri e lo paghiamo di più di un o più chiaro e piccolo. Così i produttori cercano nuove varietà con buone caratteristiche estetiche eventualmente anche a discapito del gusto. Da questo punto di vista le tradizionali albicocche saluzzesi hanno elevato tenore zuccherino ed aroma marcato. Ciò le rende molto simili alle albicocche mediorientali, pare infatti che siano state portate in queste contrade dal ponente ligure dove furono introdotte dai Saraceni. Fino ad oggi queste antiche albicocche sono state moltiplicate per seme e ciò ha consentito di ottenere una popolazione di piante fra loro abbastanza simili ma non identiche come avviene invece quando le piante da frutto sono moltiplicate per innesto. Un vero tesoro genetico conservato e tramandato dai frutticoltori locali.
Anche a Bibiana, dove vivo, si coltivano le albicocche per il clima ideale delle alture sopra il paese dove difficilmente il gelo torna a danneggiare la fioritura. Eppure negli ultimi anni anche qui è sempre più difficile produrre questa frutta. Malattie vecchie e nuove obbligano i frutticoltori a trattamenti fitosanitari sempre più numerosi. Così un po’ per l’aumento dei costi, un po’ per l’incertezza dei raccolti molti frutteti vengono estirpati. Le malattie sono certamente più virulente di un tempo e forse il clima mutato contribuisce a renderle più dannose, però nella coltura dell’albicocco è cambiata anche un’altra cosa: come per tutti gli altri frutteti, per avere raccolti più omogenei si ricorre all’innesto e si è smesso di seminare gli albicocchi. Questo causa una perdita di variabilità genetica ed una maggior sensibilità dei frutteti alle malattie: se una varietà si dimostra sensibile ed un frutteto è tutto di piante identiche di quella varietà nessuna di esse avrà scampo. Quando non c’erano programmi di miglioramento genetico i nostri predecessori hanno diffuso l’albicocco in una zona più fredda di quella di origine scegliendo, magari inconsapevolmente, fra i diversi soggetti nati da seme quelli più tardivi che sfuggivano ai geli primaverili. Mi colpisce sempre osservare come albicocchi anche vecchi sopravvivono in orti e giardini famigliari e non di rado scopro che sono nati da seme. Chissà se continuando a seminare gli alberi non si riuscirebbe a trovarne di più adatti alle nuove condizioni? Certamente aumenterebbero i tipi di albicocco presenti nel nostro paesaggio e fra questi qualcuno riuscirebbe a portare frutto. Magari quest’estate avvio una campagna personale di aumento della biodiversità agraria: provo a seminare qualche nocciolo di albicocca ..chissà.
Il miele di albicocco non so se esiste ma da noi troppo pochi sono gli alberi e troppo grande la fame delle api, che allevano molta covata per prepararsi alla sciamatura, così se lo mangiano tutto loro. Ora si stanno scatenando sui fiori dei prugnoli, dei susini e dei peschi che seguono l’albicocco nell’attesa dell’esplosione della fioritura dei ciliegi.
Testo: Paolo Maria Cabiati
Consigli per la lettura:
Barbera, Tuttifrutti – Viaggio tra gli alberi da frutto mediterranei, fra scienza e letteratura, Mondadori 2007
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