Sulla targhetta del fortepiano (come erano chiamati i primi pianoforti a Vienna dalla fine del settecento ai primi del secolo successivo) del Graf, di cui abbiamo già parlato, viene nominato come indirizzo della fabbrica, la Mondscheinhaus, ovvero la casa del chiaro di luna. Questa era una antica e grande sala da ballo a Vienna, finchè fu acquistata dal Graf per suo uso come fabbrica e alloggi. Questo per dirvi come questa immagine, forse archetipica, vivesse allora nella cultura e nella immaginazione dei viennesi. Questa, potremmo anche dirla, poetica del chiaro di luna, fu poi immortalata nella famosa sonata op 27 n.2 di L. van Beethoven; questa sonata, scritta probabilmente negli anni intorno al 1800, nacque quindi proprio nello stesso periodo in cui fu costruito dallo Schantz il nostro strumento. Il costruttore di pianoforti Johann Schantz si era stabilito a Vienna con il fratello alla fine del settecento, arrivando dalla nativa Boemia. A Vienna i pianoforti di Schantz divennero i favoriti di Joseph Haydn, che li raccomandava ad i suoi allievi molto caldamente, acquisendone anche uno per se. In una sua lettera, Haydn esalta la delicatezza e perfezione di tali pianoforti sui quali tutto si può esprimere molto meglio che su gli strumenti degli altri famosi costruttori viennesi. Per chi ha potuto udire il suono del nostro Schantz, potrebbe nascere una associazione con quella poetica immagine di un chiaro di luna, in quanto il suono può verosimilmente essere descritto come “argentino”. Il suono cosiddetto “argentino” era proprio una caratteristica particolarmente apprezzata nei migliori strumenti musicali delle epoche passate, sia che si trattasse di organi, cembali, o pianoforti. Oggi forse questo pianoforte è stato un po dimenticato ma, specialmente quando potrebbe esser suonato per dar voce magari proprio a quella sonata di Beethoven, poi detta vox populi del/al chiaro di luna, potrà magicamente evocarci una bellissima e poetica immagine di una lunare e argentea luce che illumina il paesaggio di un lago alpino.
Testo: Giuseppe Accardi
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