Qualche volta, d’inverno, la grande pianura spariva, allagata da una nebbia persistente che la copriva con una coltre bianca. Erano per il gigante giorni irreali, in cui a notti gelide seguivano giornate luminose, dal calore quasi estivo. Quei giorni gli ricordavano i suoi primi anni di vita, quando la pianura non esisteva ancora e un grande mare si trovava al suo posto. Erano ricordi confusi, perché allora anche l’ampio arco di montagne non aveva l’aspetto attuale e il gigante non ricordava bene come fosse; forse quelle montagne non esistevano affatto e tutto aveva trovato vita insieme, la pianura come le montagne e lui stesso. Per questo, nonostante il loro splendore, quei giorni gli davano un poco d’inquietudine, come se la scomparsa alla vista della grande pianura potesse portare con sé il rischio della sparizione di tutto il mondo di montagne che gli era familiare e forse anche di lui medesimo. Egli aspettava con ansia il momento in cui la nebbia sarebbe lievitata e gonfiata in grandi bolle, che sarebbero poi esplose in nuvole sfrangiate, pronte ad essere disperse dal primo alito di vento. Altre volte il vento dell’ovest arrivata inatteso e diradava in un baleno tutto quel mare di nuvolaglia, arrotolandola come un tappeto in fondo alla pianura, sempre più lontano.
“Ma dove va la nebbia quando scompare?” – si era chiesto il gigante più volte. Non aveva mai trovato la risposta. Nemmeno i venti avevano saputo dirglielo, perché quando arrivavano la nebbia se ne andava via velocemente dinnanzi a loro senza lasciare traccia. I venti e la nebbia appartenevano a due mondi separati, che non si incontravano mai.
Tratto da: Silvia Bonino, La leggenda del re di pietra, Araba Fenice, Cuneo, 2013, pp.11-12.
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