Erano stati i venti suoi amici a dirgli come gli uomini chiamavano le diverse stagioni, quei differenti periodi dell’anno che egli sapeva riconoscere dalla diversa posizione del sole nel cielo diurno, dal differente disporsi delle costellazioni in quello notturno, dai colori delle montagne e della pianura. I venti conoscevano tutto degli uomini: spazzavano le loro città, si insinuavano nelle loro case, ascoltavano le loro parole e le trasportavano lontano, talvolta rubavano anche qualche loro oggetto e si divertivano a farlo volare in cielo. Tutto ciò che il gigante sapeva, lo aveva imparato dai venti. Erano stati loro ad insegnarli i nomi di tutte le cose nella lingua degli uomini; in realtà erano lingue diverse, e spesso ciò che il vento del nord chiamava con un nome, quello dell’est lo chiamava con un altro. Ma il gigante, alla fine, aveva deciso di dare ascolto al vento dell’est, che arrivava dalla pianura e portava le parole delle persone che in essa abitavano. Erano più o meno le stesse parole che un tempo erano salite a lui, ben chiare e udibili, dalla grande conca che si stendeva ai suoi piedi, dove gli uomini venivano nei giorni d’estate non solo a portare le greggi, ma anche a ballare, correre, giocare, addirittura arrampicarsi sui suoi pendii.
Tratto da: Silvia Bonino, La leggenda del re di pietra, Araba Fenice, Cuneo, 2013, pp.11-12.
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