Dopo essere state a cavallo tra la leggenda metropolitana e la truffaldina pratica enologica ecco che la comunità europea ha sdoganato le fantomatiche polverine per fare il vino. Eh si, ora si possono vestire della dicitura consentito dalla legge. Mi scuso in anticipo se i miei ricordi non sono corretti ma per fare il vino non si dovrebbe usare l’uva? Pigiata, ammostata, travasata, fermentata, affinata in diversi modi e declinazioni fino al suo ingresso, finalmente vino, in una bottiglia, un bottiglione, una damigiana, un bag in box. E poi in tavola, a coronamento del convivio.
Sintesi di un anno di lavoro, di centinaia di gesti per lo più sconosciuti e misconosciuti (chi immaginerebbe il ruolo delle forcate di letame portato in vigna sulle sensazioni che il vino gli sta
dando sulla lingua…..), un sudato regalo della natura. Sto scivolando nel retorico, quindi con abile colpo al timone torno in carreggiata per riflettere intorno a quante operazioni in vigna e in cantina fossero e sono possibili per confezionare quel tipo di vino lì in barba a quanto successo durante l’anno, cosicché per capire l’annata non resta che.. leggere l’etichetta!
Suggerisco un ‘istruttivo viaggio su internet tra i cataloghi dei prodotti enologici a scoprire quale ceppo di lievito darà note floreali al vino o quale gomma o proteina arrotonderà l’acerbo o l’acidulo, il tutto senza obbligo di indicazione in etichetta…
Non sono un nostalgico di mitici bei tempi andati, ci sono azioni e tecniche da usare per prevenire eventuali problemi e di queste esistono testimonianze storiche anche antiche (penso alle ceneri del gambo di aglio ricche in composti solforati che gli antichi romani usavano per ovviare agli stessi problemi per i quali oggi si fa generoso uso di metabisolfito di potassio), penso solo che ad un certo punto occorra avere il coraggio etico di dire “mi fermo qui anche se tecnicamente si potrebbe andare avanti”.
Detto questo, ma c’era proprio bisogno anche delle polverine? Digitando Wine kit su internet si apre un mondo di
proposte e di prezzi per potersi fare in casa (nel senso di in cucina) il chianti piuttosto che il barolo. E con che cosa? Con una scimmiottatura sintetica di laboratorio di quanto si potrebbe trovare nella dispensa di madre natura.
Cattivamente penso: i produttori di queste meraviglie davvero non lavorano con i professionisti del mestiere ma solo con gli entusiasti privati? Un vino che costa poco più del prezzo al chilo dell’uva teoricamente necessaria a produrlo, che diamine di vino è? Se è vero che siamo quello che mangiamo e beviamo, forse bisognerebbe iniziare a chiedersi se il mantra che il cibo deve costare poco sia una buona cosa o piuttosto che un mantra più saggio potrebbe essere che il cibo buono deve essere accessibile. Per rispetto di chi lavora onestamente, che i gesti misconosciuti li continua a fare sempre più per orgoglio personale che per altre ragioni e che su queste questioni si mangia il fegato dalla rabbia. E per rispetto verso noi stessi, noi consumatori a cui si tenta di levare i panni della persona per indossare, felici e consenzienti, quelli di pattumiera che eroga soldi.
Testo: Paolo Priotti
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