Arrivando oggi all’abbazia di Staffarda, il paesaggio che circonda l’antico monastero medievale è di gran lunga diverso da quello trovato dai primi monaci cistercensi giunti da Tiglieto per insediare una nuova comunità ai margini del centro urbano di Saluzzo. Non così vicina alla città, in realtà, anzi in piena pianura per lo più boschiva e non coltivata così come doveva essere dei primi decenni del XII secolo. Molto differente, quindi, dall’intenso sfruttamento al quale è sottoposto oggi questo territorio, caratterizzato, soprattutto nei dintorni di Barge, da capannoni industriali e artigianali, e distese di coltivazioni di mais, che continuano fino a Cavour e di fondono nei frutteti prossimi a Saluzzo. E allora ecco che il complesso agricolo che un tempo faceva parte dei possedimenti di Staffarda, con la triste vicenda di un patrimonio difficile da mantenere per l’Ente proprietario, viene frazionato e sfruttato in modo incongruo. Nascono e si sviluppano impianti fotovoltaici di grandi estensioni, permessi e incentivati dai comuni di Envie e di Barge, nuove aree industriali, come quella predisposta, da quest’ultimo, con gli accessi stradali e la rete di illuminazione, ma mai portata a termine e resa attiva (e questo la dice lunga sulla capacità di pianificazioni dei nostri comuni, che prevedono crescite ormai inesistenti negli ultimi decenni) a pochi chilometri dal profilo del campanile dell’abbazia. E così che salendo sul Montebracco sulla via delle proprietà e delle grange dei monaci cistercensi, si arriva al bellissimo ed emozionante punto panoramico della croce di Envie, dove nelle giornate limpide e pulite la vista contempla la straordinaria visione del Monviso e delle Alpi da Cuneo a Torino, ma anche, della pianura sottostante verso una distesa di impianti agricoli, dove i teli di protezione dei frutteti ridisegnano le antiche partiture della centuriazione romana ancora visibile intorno a Cavour, e i pannelli solari riflettono con tutta la loro potenza la luce del sole, specchiando un mondo diventato ormai surreale. Quindi un paesaggio in grande trasformazione, che cela la sua storia più antica, ancora leggibile tra i muri del monastero cistercense e nella sua chiesa, nelle stalle delle grange poi diventate cascine nell’età moderna, ma difficilmente nel parcellare agrario, nelle partizioni che hanno trasformato i profili dei corsi d’acqua, plasmandoli a uso e consumo della produzione agricola o dell’allevamento. Una realtà nuova e lontana dal mondo medievale…ma com’era il paesaggio cistercense? Ci viene in aiuto, per comprendere meglio come era organizzato il territorio intorno al monastero, la documentazione di un processo, svolto nel 1209, per una lite scoppiata tra i monaci cistercensi e i signori di Moretta per il possesso del bosco di Aimondino situato a breve distanza dal monastero lungo il corso del Po oltre il rio Salasco. Tra i testimoni Guglielmo de la Mura ricordava che quando era ancora giovane, un vecchio mostrandogli il bosco affermava: “questo bosco è dei Cistercensi, che lo debbono disboscare e se lo disboscheranno andrà persa la caccia ai maiali, ai cinghiali e ai cervi, poiché quella era la loro tana”.
Queste semplici parole restituiscono una situazione di forte mutamento che imposero i monaci al territorio innescando grandi polemiche e liti con le comunità locali. Nell’arco di breve tempo tutto un modello di vita agricola basato sul sistematico sfruttamento dei vasti appezzamenti boschivi per la caccia, il pascolo e l’allevamento sarebbe entrato in crisi, con conseguenze anche gravi per le comunità che avevano usufruito della foresta che forniva frutta, legname, erba e frasche per il pascolo e, con la caccia, la carne. Tutte le attività che si svolgevano nel bosco erano soggette al consenso dei marchesi di Busca che avevano diritto di trattenere parte degli animali cacciati o della legna tagliata. I vividi racconti del processo con più di una quarantina di testimoni sentiti ricordano battute di caccia ben organizzate dai signori del luogo, che cacciavano animali di grandi dimensioni quali caprioli e cervi, ma anche cinghiali e maiali selvatici che popolavano numerosi il bosco. Oberto de la Rossa, cacciatore di Saluzzo, dichiarava di non ricordare il numero esatto di animali cacciati (anche perché, forse non tutti i diritti ai signori erano stati corrisposti!), ma probabilmente oltre a un migliaio! Il taglio della legna era fonte di grandi liti e discussioni con numerosi sequestri di attrezzi e di materiale già tagliato impropriamente da persone, anche organizzate in gruppi, non autorizzate o che non avevano pagato la tassa per poter accedere al bosco. I campari avevano il compito di sorvegliare, allontanare e multare chi si introduceva nel bosco clandestinamente. Così come accadde ad un gruppo di abitanti di Carignano sorpresi a far legna nel bosco con quattro carri al seguito o a Torino di Soave, vignaiolo, che si recò nella foresta per prelevare due carri di pali di sambuco per la sua vigna, e venne sorpreso da un forestarius che voleva sequestrare i due buoi. Il bosco era utile anche per l’allevamento in quanto il ricco nutrimento del sottobosco, e le frasche e i polloni degli alberi garantivano cibo alle pecore portate dai pastori e ai buoi che potevano pascolare nella selva meno fitta e ombrosa. I contrasti tra i monaci e i signori di Moretta continuarono e spesso ebbero come protagonisti le persone che lavoravano per i monaci al dissodamento delle terre, alla realizzazione di fossati, al taglio del legname e alla raccolta nei campi del grano. L’opposizione dei signori locali è esplicita e anche molto dura: quello che spaventava era la rapida trasformazione di un territorio e degli usi tradizionali che si svolgevano in esso, il passaggio da un’economia agricola che lasciava ampi spazi al pascolo, alla raccolta e alla caccia, verso uno sfruttamento sempre più sistematico di tutti i terreni coltivabili. Certo la dura presa di posizione dei signori non è da leggersi come una precoce coscienza ecologista, ma quanto come il vedere svanire uno dei diritti più antichi e importanti dello status nobiliare, così come sottolinea Sarlo, dominus di Moretta, che rivolto ai cistercensi affermava: “Voi lavorerete e farete ciò che vorrete; mi togliete il mio diritto al bosco e al pascolo e la mia caccia”. Un paesaggio quindi fortemente mutato dall’insediamento di una grande comunità come quella cistercense che se da un lato forniva nuove possibilità lavorative ed economiche dall’altro e proprio per questo, causava profonde e radicali trasformazioni su un territorio che garantiva la sopravvivenza per un significativo numero di comunità nei suoi pressi. Un concetto di mutamento e di trasformazione che continua nei secoli a perdurare, forse oggi con più velocità a seguito delle nuove tecnologie che permettono attività maggiormente redditizie rispetto all’agricoltura come l’energia solare. La saturazione degli spazi urbani porta ad una colonizzazione sul territorio di tutte le attività legate al commercio e all’artigianato, con la creazione di poli artigianali, spesso piccole (non sempre tali) “città” nate nell’arco di pochi mesi con l’edilizia del prefabbricato e del capannone che continua ad imperare nelle nostre campagne. Così i principali assi viari si connotano per un susseguirsi di magazzini, grandi supermercati che consumano il territorio, e tolgono aria e vita all’agricoltura.
Ma esiste un uso compatibile del suolo, del territorio? Bisogna trovarlo con tenacia rivolta ad una limitazione della produzione per non impoverire terreni e acque già ampiamente sfruttati e sempre più carenti, scegliere tecniche di produzione a basso impatto, tornare alle piccole coltivazioni invece delle grandi estensioni, promuovere la qualità invece della quantità, scegliere un nuovo punto di vista, un nuovo mondo agricolo al centro del quale, ancora una volta, vorremmo rivedere l’abbazia di Staffarda!
Testo: Silvia Beltramo
Consigli per la lettura
L’abbazia di Staffarda e l’irradiazione cistercense nel Piemonte meridionale, a cura di R. Comba e G. G. Merlo, Cuneo 1999, in particolare i saggi:
Panero, Formazione, struttura e gestione del patrimonio fondiario dell’abbazia di Staffarda (secoli XII-XIV), pp. 239-258
Grillo, Dal bosco agli arativi: la grangia di Aimondino in una raccolta di testimonianze degli inizi del Duecento, pp. 269-286
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