29 Agosto 1861 ore 9,30 la giornata è incredibilmente tersa, come si addice ad un’occasione come quella. La cima del Monte ”visibile” a 3861 metri di quota è finalmente raggiunta. I due alpinisti, nonché topografi (ma del resto all’epoca le due professioni erano inestricabilmente congiunte) Mathews e Jacomb, sono raggianti, così come perlomeno soddisfatte dovevano esser le due guide valdostane Jean Baptiste e Michel Croz. Il Monviso era finalmente salito o come si amava ripetere all’epoca prendendo a prestito termini usati in ambito bellico… vinto, conquistato. La loro non era stata una marcia forzata alla conquista della montagna simbolo delle Alpi Cozie, i due inglesi vi avevano già provato l’anno prima, rinunciando a causa del cattivo tempo, ma senza dannarsi troppo l’anima avevano organizzato una spedizione per l’anno seguente. Partiti in treno da Torino si erano fermati a dormire a Saluzzo e da li erano risaliti sino a Sampeyre in carrozza per poi incamminarsi a piedi sino Pontechianale. Una passeggiatina di avvicinamento di una ventina di chilometri tanto per gradire, percorrendo così tutta l’alta Val Varaita.
Per il Viso non si era venuta a creare quella corsa senza esclusione di colpi che invece solo cinque anni più tardi verrà a determinarsi per l’ascensione del Cervino. I sudditi di sua maestà la regina Vittoria sono stupiti del fatto che nessun locale avesse mai preso in considerazione l’idea di salirvi. Non riescono a farsene una ragione, chiamano in causa la superstizione, forse pensano anche che i valligiani siano piuttosto pavidi; i due esploratori sono sicuramente mossi da quella grossa sete di conoscenza che anima gli studiosi britannici di quel periodo, ma anche da quella spinta che gli deriva dall’essere cittadini del più grande impero del mondo. Le prime ascensioni equivalgono in miniatura a ciò che da trecento anni a quella parte in tutto il pianeta sta avvenendo tra le potenze coloniali, ossia una corsa ad accaparrarsi un territorio considerato vergine in buona barba a ciò che ne pensano i villici. Non sanno nulla di Domenico Ansaldi e di come anni prima, partendo così come si potrebbe uscire per una gita domenicale, sia arrivato a 3700 m. di quota respinto dalla nebbia e da un masso che avvolto da questa doveva esser sembrato insuperabile. I locali non sono interessati a salirvi per il semplice fatto che non c’è nulla da guadagnarci lassù, sono talmente impegnati, piccole formiche alpine a far provviste per l’inverno, che non possono permettersi il lusso di perdere neanche pochi giorni per dedicarsi a questo genere di cose… a che prò, se si sale in montagna chi taglia il fieno, chi munge le vacche. Non è un caso che la figura della guida alpina acquisisce di valore nell’esatto momento in cui i locali capiscono che da quella attività se ne può trarre profitto. Quando l’anno seguente Tuckett assoldò Bartolomeo Peyrot di Bobbio Pellice come portatore, tramandandolo, suo malgrado come il primo italiano sul Viso, lo convinse a suon di denaro sonante e con la promessa di pantagrueliche cene. Gli abitanti del posto dovevano esser talmente abituati alla presenza di alpinisti inglesi che quando due anni dopo Quintino Sella & soci decisero di tentare la salita nel tentativo di riscattare in parte l’orgoglio nazionale, vennero scambiati per anglosassoni scatenando la loro reazione stizzita. Povero senatore così lontano dai bisogni della sua gente da non accorgersi che ben altre erano le questioni che stavano a cuore ai cittadini del neonato regno. Fatto sta che ridisceso a valle, sull’onda dell’entusiasmo Sella decide di fondare anche da noi un Club Alpino prendendo ancora una volta spunto da quanto era già avvenuto oltre manica.
Testo: Andrea Arnoldi – Accompagnatore naturalistico MonvisoPiemonte
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