E’ molto presto stamattina a Sant’Anna di Bellino, ed il sole basso non tinge ancora di ocra la ciclopica Rocca Senghi. Di fronte a me, la piramide del Pelvo di Ciabrera si staglia bianca ed imponente nel cielo azzurro senza nuvole.
E’ qui che sono diretta oggi, insieme a Beppe che conosce questi luoghi meglio delle sue tasche e ad un gruppo di altri amici. Sarà un’escursione lunga ed impegnativa, resa possibile dal meteo stabile di questa giornata di metà luglio.
Il sentiero sale tranquillo verso l’ameno Pian Ceiol, tagliando prati verdi ricchi di fioriture dai mille colori che le mucche ancora non hanno brucato, quindi si restringe e sale nella profonda gola delle Barricate, dove il Varaita di Bellino scroscia impetuoso verso il fondovalle.
Usciti da questo breve ma suggestivo canyon il panorama si apre nuovamente, regalando ovunque si guardi panorami da cartolina come solo questa vallata sa fare. Numerose grange punteggiano gli ondulati pendii smeraldini, circondati dai severi profili del Mongioia, del Salza, del Monviso e del Pelvo di Ciabrera baciati dal sole. Isolate mandrie di mucche bianche pascolano in questa meraviglia, facendo dondolare i loro campanacci che riecheggiano monotonamente nel silenzio assordante della natura. Tutto è armoniosamente perfetto, nulla stona.
Camminiamo in direzione del colle dell’Autaret, attraversando questi pascoli meravigliosi. La Bassa di Terrarossa ed il monte Maniglia fanno ora capolino, quindi anche i Denti di Maniglia si svelano con il loro caratteristico profilo frastagliato.
Facciamo tappa in questa fiaba vera alla baita dell’amico Beppe, incastonata in un pendio in modo così perfetto da sembrare parte dell’ambiente naturale. Beppe ci prepara un buon caffè. Il profumo sprigionato dalla caffettiera si mescola con quello dei numerosi fiori che ondeggiano sospinti da una brezza sottile. Il Monviso pare guardarmi mentre contemplo il serpeggiare del Varaita più in basso. Da dietro le lose del tetto decorate da licheni arancioni, il profilo tozzo e rossastro della Bassa di Terrarossa veglia silenzioso sulla quiete di questa piccola ed ospitale casetta.
Provo ad immaginare come dovevano essere le estati di chi era bambino più di sessant’anni fa, quando le famiglie andavano in alpeggio per l’intera estate ed abitavano tutte queste grange. Immagino la fine della loro giornata, quando le mucche venivano ricoverate al piano più basso di ogni casa, e si accendevano deboli luci, trasformando l’abitato in un presepe. Allora iniziava un viavai di baita in baita, con le persone che si ritrovavano per discorrere in compagnia, narrare storie di masche ai bambini che si stringevano vicini per farsi coraggio, da un lato impauriti da questi racconti e dall’altro desiderosi di ascoltarli fino in fondo. Da lì a poco le luci si spegnevano, perché il giorno iniziava presto. Era una vita sicuramente dura, ma intervallata da momenti di vera gioia, affetto e solidarietà.
Mentre sono immersa in questi pensieri, vedo Beppe che ripone le grandi chiavi della baita nello zaino. L’uscio è chiuso ed io ritorno nel presente. E’ tempo di ripartire.
Il sentiero per il Colle dell’Autaret sale zigzagando in mezzo ai prati, fronteggiato dal lungo baluardo del monte Maniglia. Poco più in alto la Bassa di Terrarossa si specchia in un piccolo e suggestivo lago. Lì vicino una piccola distesa di ranuncoli giallo oro si dondola dolcemente. Passiamo quindi una vasta prateria disseminata di genzianelle più blu del cielo dove resiste ancora qua e là un po’ di neve, fino ad arrivare alla via di salita al colle. L’erba si fa sempre più rada, fino a lasciare il posto a fini sfasciumi sui quali trovano ospitalità soltanto piccoli cuscini di saponaria rosa.
Il sentiero sale deciso fino a giungere al colle dell’Autaret. La sella è un prolungamento della Tete de l’Autaret, caratterizzata da detriti rocciosi fini e neri. Una grossa e spessa lingua di neve resiste ai piedi di questo valico per la Francia. L’affaccio d’oltralpe è sulla valle dell’Ubaye. Il paesaggio è tremendamente affascinante: aspre vette tormentate da numerose pieghe forgiatesi durante le ere geologiche, sono un susseguirsi di sfumature che virano dal nero all’ocra. Erba rada spicca sul fondo, decorando il terreno giallastro e grigio. I residui di neve fanno risaltare ancora di più questa tavolozza di colori naturali. Ognuna di queste pietre è un libro aperto sulla storia della Terra.
Purtroppo dobbiamo discendere lungo una traccia ripida e serpeggiante su fini detriti, quindi attraversare una lunga pietraia mobile prima di arrivare alla base del Pelvo di Ciabrera, che si erge mastodontico ed impervio di fronte a noi.
La via di salita si intuisce a sinistra di un ripidissimo canalone che pare tagliare verticalmente in due la montagna. Inizia ora il tratto più difficile di tutta l’escursione. E’ quasi mezzogiorno e il sole picchia sulle nostre teste. Dapprima occorre recuperare dislivello rimontando una serie di brevi ma ripide balze rocciose intervallate da magra erba, quindi ci si avvicina alla vetta muovendosi a zig-zag su pietre rotte, nerastre, tutte uguali. Sono quasi quattro ore che camminiamo, le forze sono messe a dura prova da questa salita che pare eterna. Il fiato si fa sempre più corto. Alcuni stambecchi ci osservano dall’alto, protetti dalla loro posizione privilegiata. La via, senza segnali, si cerca salendo ripidamente fra le rocce in modo da aggirare alcune placche molto esposte. Meglio non voltarsi mai all’indietro. L’elevata pendenza e l’assenza di qualunque tipo di protezione, uniti alla stanchezza, potrebbero destare panico.
La croce di vetta inizia a vedersi, ormai manca poco alla cima. Il vento freddo che non ci ha abbandonati per tutta l’ascesa si fa forte e fastidioso. Ci abbracciamo per essere riusciti a salire fin quassù, a 3152 metri di quota, quindi indossiamo cappello e giaccavento per riuscire a resistere giusto il tempo di godersi la spettacolare vista e di scattare qualche foto.
Il panorama è circolare. Lo sguardo spazia dal Monviso al Pelvo d’Elva e Rocca la Marchisa, quindi al monte Oronaye, al Sautron e al monte Maniglia, dietro ai cui Denti svetta il Brec de Chambeyron e poi l’Aiguille de Chambeyron e molte altre montagne in territorio francese. Quindi gli occhi si posano sul Mongioia e sul Salza. Con un po’ di attenzione si riesce a scorgere il piccolo bivacco Boerio. Oltre questa prima corona di montagne se ne vedono altre all’orizzonte, e poi altre ancora, fino a quando lo sguardo si perde e si confonde. La vallata si riconosce fin oltre l’abitato di Sampeyre, solcata dal ben visibile torrente Varaita, nel quale si sono congiunti l’omonimo torrente di Bellino e quello di Chianale.
Trovarsi a queste quote rende ogni cosa più chiara, i pensieri accumulati negli affanni del quotidiano diventano ordinati. Non ci sono sospesi. Come scriveva Lord Byron, “Quassù non vivo in me, ma divento una parte di ciò che mi attornia.”.
E’ tempo di scendere dalle scoscese pareti del Pelvo di Ciabrera, compiendo numerose serpentine per non rischiare di scivolare. Giunti alla base della montagna, finalmente pranziamo.
Quando ci rimettiamo in marcia sulla pietraia sappiamo bene che, prima della discesa costante, ci aspetta ancora l’ardua risalita fin sul colle dell’Autaret.
Il vento ci costringe a stare coperti, ma il sole è comunque ancora forte. Intraprendere la salita a stomaco pieno e con queste condizioni è davvero difficile. Ogni pochi passi siamo costretti a rifiatare. La vista del colle è un miraggio che, dispettoso, sembra sempre arretrare di qualche passo per rendere questo tratto eterno. Finalmente riusciamo ad arrivare sulla sella. La luce del pomeriggio accende le rocce del Pelvo d’Elva e della Marchisa facendone brillare il quarzo bianco. Il monte Maniglia è ora più scuro. La Tete de l’Autaret continua a rimanere grigia. Tagliamo per i prati guadagnando dislivello, e in breve tempo siamo di nuovo alla baita di Beppe. Riempiamo le borracce alla vicina fonte e contempliamo ancora l’ameno panorama che si gode da qui. Poi riprendiamo la lunga discesa che ci conduce nuovamente alle Barricate. Alcuni giovani stambecchi che stavano bevendo l’acqua del torrente, impauriti dalla nostra improvvisa presenza risalgono a grandi balzi le lisce pareti verticali della gola.
Pian Ceiol è poco più sotto, poi i vasti prati ricchi di fiori gialli e le grange prossime a Sant’Anna. Siamo arrivati. Dieci ore di cammino su gambe e spalle e un’infinita dose di ricchezza in più nei nostri cuori.
Testo ed immagini di Elena Cischino, tutti i diritti sono riservati
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