Oggi, alle soglie dell’estate, riflettevo su questi mesi passati fra le quattro mura di casa.
Sono stati mesi dominati dal silenzio. Il silenzio delle montagne che non abbiamo potuto raggiungere è sceso dalle vette ed ha avvolto improvvisamente i paesi e le città, e in un attimo tutto è diventato deserto.
Il rumore ci ha fornito una tregua, ci ha risparmiato la sua quotidiana e ingombrante presenza.
Quel rumore che accompagna il tempo della nostra vita, tempo senza posa, e che si manifesta nelle varie forme della confusione, del frastuono, del chiasso, ma che è soprattutto un costante stillicidio, come la quantità di stimoli informativi e comunicativi che riceviamo di continuo, spesso inconsapevolmente. Siamo circondati da un rumore di fondo che non ascoltiamo, ma che percepiamo, e al quale reagiamo solo quando ci infastidisce.
Il rumore colma i nostri vuoti interiori, perciò non siamo abituati al silenzio, perché esso rende ogni vuoto maledettamente reale, quasi tangibile. E il vuoto, inteso anche come pausa nell’epoca delle comunicazioni online, rischia di essere insopportabile. Il silenzio ci denuda e mette in mostra le nostre fragilità, ci fa ritrovare soli con noi stessi, all’interno delle nostre case, senza il caos costante e rassicurante che ci circonda.
In questi mesi di isolamento il silenzio si è intrecciato con la paura, con la sofferenza, in molti casi purtroppo con la morte, disarmando ciascuno di noi.
E nel silenzio abbiamo avuto l’opportunità di riflettere su chi siamo e dove stiamo andando, e ci siamo chiesti se ci sarà ancora posto per noi in questo mondo. Il mondo, infatti, ha dimostrato di poter andare avanti anche senza la nostra presenza ingombrante, senza quel gran rumore che sappiamo generare, senza le nostre prevaricazioni sulle altre specie e sulla natura.
Il mondo senza di noi ci è sembrato bellissimo ma spaventoso allo stesso tempo, perché ci ha fatto paura la nostra assenza.
Fuori dalle nostre abitazioni separate dal mondo la primavera è comunque arrivata. E ci siamo accorti, grazie al mutismo forzato dei nostri soliti rumori, che la primavera è silenziosa, perché i fiori non hanno bisogno di fare rumore per avvisare che stanno per sbocciare. Sbocciano e basta. A migliaia. A milioni. E colorano i prati e gli alberi, richiamando api e farfalle mentre il cielo diventa più leggero e si tinge di azzurro e si popola di uccelli. Il canto degli uccelli che, soprattutto nelle città, prima era assorbito dalla moltitudine di rumori mal accordati generati da noi umani, in questo silenzio si è fatto notare, ed è stato bellissimo udire i fischi dei merli in amore, distinguere il richiamo del cuculo e riconoscere i cinguettii forti dei primi nidiacei.
Udire, in mezzo all’assenza dei nostri suoni, quelli armoniosi degli altri esseri viventi, vedere dalla finestra i colori della natura che rinasce dal rigore dell’inverno. Udire, vedere ma non vivere e non condividere la primavera. Fare da spettatori singoli, e provare a percepire con il cuore l’impeto della natura che pulsa, e ogni anno rinasce inesorabilmente dal nulla apparente dell’inverno, bramando soltanto di vivere.
Senza il silenzio, senza l’isolamento forzato dalla natura che ci ha fatti saltare dall’inverno direttamente all’estate, non potevamo soffermarci a riflettere su questo, per cercare di ritrovare il vero significato della nostra esistenza e provare a ridefinire la scala delle priorità.
Solo nella momentanea privazione di stare nella natura abbiamo capito quanto in realtà facciamo parte di essa e dobbiamo rispettarla e tutelarla. A tal proposito è emblematico, pensando alla pandemia, quanto scrive David Quammen: “Là dove si abbattono gli alberi e si uccide la fauna, i germi del posto si trovano a volare in giro come polvere che si alza dalle macerie.”
Testo ed immagini di Elena Cischino, tutti i diritti sono riservati
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