I ramponcini scricchiolano sulla neve dura e ghiacciata in questo primo, lungo tratto di salita ripida. Il torrente scroscia tortuoso sul fondo dello strapiombo, vorticando intorno ai sassi ricoperti da una spessa coltre bianca.
I larici e i cembri si abbarbicano sulla franosa scarpata con i loro tronchi dalla base contorta per lo sforzo di sostenere gli alti fusti che puntano dritti al cielo.
E il cielo è terso e blu in questa fredda mattina del tardo inverno. Le punte dei larici sono accese del giallo dei nuovi germogli. Fra l’erba secca e apparentemente morta i primi crochi violetti sbocciano alla vita, cercando la luce. E’ il miracolo del rinnovamento che si ripete da sempre e per sempre, la bellezza della rinascita, il dono che la natura fa a se stessa ed a tutte le sue creature.
I pensieri fluiscono nella mente mentre i passi mangiano la salita. Ciò che è pesante, sia di vestiario che di testa, a poco a poco mi abbandona: la montagna insegna a viaggiare leggeri lasciando andare il superfluo.
Ora la valle si apre. E’ ancora innevata, ma il vento e il sole hanno lavorato i fianchi delle montagne liberandoli da accumuli pericolosi. E in mezzo scorre il fiume. Ci facciamo compagnia, mentre io salgo e lui scende. Il mio respiro si unisce al suo mormorio argentino. Ad ogni passo ci incontriamo, ogni tanto ci attraversiamo incrociando i nostri cammini. Lui salta formando una cascatella, io cambio ritmo perché aumenta la pendenza della traccia.
La neve inizia ad essere alta e servono le ciastre. Il cammino si fa più faticoso, e l’ulteriore lentezza che già di per sé impone la neve, mi fa osservare nuovi dettagli di un itinerario che ho percorso molto spesso, ma non durante l’inverno. Larici e cembri si mescolano sulle pendici dei monti dai profili aspri che si svelano via via silenziosi alla destra mentre lentamente io salgo ed il fiume più lesto scende.
Pietre affilate come lame custodiscono i segreti millenari dei valloni trasversali che si aprono fra le bastionate di roccia. I bivi per avventurarsi per queste vie impervie si riconoscono da pugnate di case diroccate. Le vestigia dell’uomo giacciono ai piedi delle stesse montagne che son servite per costruirle in un passato ancora recente, se paragonato al tempo immemore da cui si stagliano questi monti al cielo.
Il silenzio e queste titaniche presenze incutono rispetto. L’energia degli uomini che viveva qui permea la terra e si fonde con quella delle montagne da ogni lato. E in mezzo scorre il fiume, che raccoglie ogni spirito ed ogni storia donandogli nuovo vigore con la forza dell’acqua che passa e va.
Passano le grange Gheit e poi le grange del Rio. Da qui in poi so che inizierò a percorrere la vera e propria mole del gruppo del Monviso nella vastità della sua parete Ovest. Ogni volta che arrivo in questo punto mi stupisco per le fattezze e le dimensioni di queste montagne.
La prima è la Caprera, con il suo liscio e gigantesco triangolo. Oggi c’è qualcuno lassù: due alpinisti hanno scalato l’esile cascata di ghiaccio incuneata in una lunga e stretta fessura di questa placca di roccia ed ora stanno scendendo su un traverso innevato. Mi accorgo della loro minuscola presenza scambiandoli inizialmente per stambecchi in movimento sulla neve.
La via sale più faticosa, devo piegare per pendii sulla sinistra e aggirare a tratti quello che sarebbe il sentiero estivo. Da qui a poco il primo spigolo del Dado di Viso fa capolino dietro alla punta della Caprera, svettando imponente su tutte le altre cime. Come una sfinge mi guarda faticare sulla neve.
La neve aumenta, così come la pendenza. Intanto appaiono il Visolotto e Punta Gastaldi. Nei pressi della testata del vallone si distingue bene la Losetta, quasi completamente ricoperta di neve.
Tanto sono imponenti le montagne alla mia destra quanto sono selvaggi i dirupi alla sinistra, in mezzo ai quali si diparte l’aereo e franoso sentiero che conduce a Le Conce, impraticabile in questa stagione.
In mezzo, più in basso, so che scorre il fiume anche se da qui non lo vedo, ma continuo a sentirlo.
Nella distesa di neve di fronte intravedo il minuscolo rifugio Vallanta. La neve dilata le distanze e fa aumentare la fatica. Il rifugio si avvicina ma sembra irraggiungibile.
Finalmente, dopo un ultimo traverso, eccolo. La moderna costruzione di lamiera e pietra ricorda la forma della grande parete Ovest del Monviso, ed è disposto in modo tale da guardarla per sempre. Il gigante e la formica.
Il lago della Bealera Founsa è completamente ghiacciato e brilla al sole restituendo a chi guarda delle sfumature azzurrine.
Mi siedo sulle sue rive e contemplo la selvaggia bellezza di questo luogo che il ghiaccio e la neve rendono quasi mistico ed ascolto il silenzio, più forte del mormorio del fiume che scorre in mezzo al vallone più sotto.
Il lago, il rifugio e le montagne diventano un’isola al di fuori del tempo e dello spazio. Non esiste niente altro in questo momento. Esistono soltanto il qui e l’ora.
Le mie mani appoggiate a terra creano una connessione fra il mio corpo e la natura. Nel silenzio sento l’energia dell’acqua e della roccia fluire dentro di me. Provo tanta gratitudine per questa bellezza e ringrazio la montagna che mi ha permesso di arrivare quassù.
Il respiro, il battito del cuore ed il vento lieve si accordano con l’armonia del silenzio. Provo a spezzarla facendo qualche timido passo sulla superficie del lago. L’equilibrio è turbato, ed il ghiaccio mi risponde con un rombo sommesso e sordo, che mi fa capire che mi devo fermare dove sono.
E’ ora di andare e di ripercorrere a ritroso il lungo vallone. Dò un ultimo sguardo intorno a me e grazie al colore giallo delle sue persiane, scorgo i resti del rifugio Gagliardone, perfettamente integrati con la neve e con le pietre.
Incomincia a fare più freddo. Passo i traversi, ridiscendo un paio di pendii e ritrovo il fiume. Alcuni tratti privi di neve sono diventati fangosi in queste ore, e inzaccherano le ciastre.
I raggi del sole più bassi colorano di rosso le montagne e fanno brillare i germogli dei larici.
Noto i resti di una piccola slavina sotto il triangolo della Caprera. Questa mattina non l’avevo vista, ma osservando con più attenzione dovrebbe essere già lì da qualche giorno.
Mentre cammino mi convinco sempre di più del fatto che i luoghi non sono mai uguali a se stessi, esattamente come noi e come l’acqua del fiume. C’è sempre almeno un dettaglio che li rende unici ogni volta. Basta non stancarsi di cercarlo.
Sono contenta di essere qui, e di vedere le montagne e gli alberi cambiare colore mano a mano che il sole si abbassa. Questa profonda connessione con la natura mi convince ancora una volta che, come scrisse Bernardo di Chiaravalle, gli alberi e le rocce possono insegnarmi cose che nessun maestro mi dirà. Forse perché gli alberi e le rocce regalano quel silenzio che mi lascia ascoltare l’anima. Forse perché gli alberi e le rocce mi svelano una verità che dovrebbe essere già davanti agli occhi: la consapevolezza e la gratitudine per quanto già ho anziché l’insoddisfazione per quanto mi manca. Accettare ciò che è e ciò che si è.
Intanto, in mezzo al vallone il fiume continua a scorrere.
Testo ed immagini di Elena Cischino, tutti i diritti sono riservati
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