Quando si parla dei rifugi del Monviso, ai più vengono in mente il Quintino Sella o il Vitale Giacoletti, ubicati in panoramici e severi luoghi incastonati in mezzo a rocce e pietraie. Eppure esiste anche un piccolo rifugio che si erge nella quiete di ameni pascoli e nel silenzio di un placido lago: è l’Alpetto, il vero riferimento per gli alpinisti che alla fine del secolo scorso si avventuravano verso la scalata del Re di Pietra. Fu il primo rifugio ufficiale del CAI (anno 1866) e dopo alterne vicende attualmente è adibito a museo, accanto alla poco più grande costruzione che ospita chi viene quassù partendo dalle meire Dacant o lo utilizza come tappa del Giro del Monviso. Da qui, percorrendo i contrastati declivi sotto la Rocca Bianca, ci si inerpica attraverso la gola centrale del Gruppo dell’Alpetto, scavata dall’omonimo rio che in questo punto precipita in una suggestiva cascata, quindi si segue il serpeggiante corso d’acqua che taglia un’estesa brughiera pianeggiante, in fondo alla quale svetta maestoso il Monviso e, all’improvviso, il bell’edificio in pietra. Poco distante, lo specchio d’acqua del piccolo lago. Mi piace questo itinerario e sono salita in parecchie occasioni al rifugio. La prima volta era fine maggio, ed i pendii erano ricoperti dal velluto verde della primavera appena giunta a queste altezze. Distese di fiori gialli, interrotti qua e là dalle chiazze rosa dei rododendri e dai puntini blu delle genzianelle creavano ovunque suggestive macchie di colore. Il cielo era però cupo e minaccioso, ed il silenzio caratteristico che precede un temporale veniva rotto soltanto da isolati fischi di marmotta. Ad un certo punto il cielo si aprì piangendo pioggia e poi minuscola grandine su di noi che incuranti ed un po’ incoscienti continuavamo a salire verso il rifugio Alpetto, confidando in un piovasco passeggero. Poi la foschia sembrò diventare più fitta e, complice la scura sagoma del Gruppo dell’Alpetto di fronte a noi e i tuoni che si intensificavano, decidemmo prudentemente di rinunciare alla meta, ritornando sui nostri passi. Infine la pioggia ci diede un po’ di tregua e ci fermammo a mangiare vicino alle meire Dacant, scaldati dal timido sole che illuminava la neve ancora presente sulle montagne intorno a noi, mentre i soffioni del tarassaco erano ancora appesantiti dalle gocce di pioggia. Riprovare lo stesso sentiero dopo una settimana, ma con il sole, è come fare un percorso nuovo. Riprovarlo insieme a mio figlio, noi due soli, diventa un’esperienza unica. Camminare con lui è come vedere le cose in due modi differenti nello stesso tempo, col valore aggiunto che soltanto lo stupore di un bambino può dare. I ricordi di questa escursione sono talmente forti che li descriverò al presente, perché mi sembra di riviverli in proprio ora. Veder saltare Giulio sulle pietre guadando un torrente, aggiungere una pietra sugli ometti segnavia, rincorrere una farfalla o scrutare con il binocolo fra i pendii in cerca di una marmotta dopo averne sentito il fischio, mi riempie di gioia e il fatto di condividere tutto questo insieme a lui mi fa sentire smisuratamente ricca. Le mastodontiche rocce scure della gola del rio dell’Alpetto diventano gigantesche polene di navi pronte a salpare fra le nuvole. I ranuncoli gialli che a milioni popolano i pendii verdi intorno a noi diventano costellazioni di stelle luminose. Le nuvole dalle forme mutevoli ora sono draghi, ora cani, ora treni… Il sentiero, a tratti faticoso, è solo nostro. Nessuno ci fa compagnia nella salita. Passiamo il baluardo roccioso che cinge la cascata e ci troviamo in un mondo nuovo: una distesa d’erba color smeraldo incorniciata da alture ancora innevate; accanto a noi il torrente colmo scorre maestoso indicandoci la via, ed il Monviso fa qualche apparizione fugace sullo sfondo. All’improvviso il rifugio Alpetto si materializza davanti a noi e, meraviglia, subito sotto
si apre lo specchio d’acqua dell’omonimo lago. Le uova di rana temporaria fanno pullulare di vita le sponde, ed è bello vedere il mio bimbo osservarle, ed afferrare con le manine le piccole rane già nate, per poi farle saltare nuovamente in acqua. Alcune persone sono già lì. Decidiamo di percorrere con loro un tratto del sentiero che porta al rifugio Quintino Sella, per vedere il lago dall’alto. Salendo abbiamo il privilegio di cogliere il corso del rio che alimenta il lago, e quello del torrente che ci ha guidato fin dagli inizi del nostro itinerario. Arriviamo sino ad un cumulo di neve, e Giulio ci si tuffa insieme al cane dei nostri compagni di salita. Ridiscendiamo al lago e pranziamo velocemente, quindi scendiamo tutti insieme. Le nuvole iniziano a scendere, il tempo è mutevole in montagna, meglio rientrare. Le nere e scoscese rocce della gola del rio dell’Alpetto ci fanno un ultimo regalo: le evoluzioni di un giovane stambecco.
Dopo questa volta tentai di salire all’Alpetto in una giornata estremamente ventosa e successivamente piovosa. La mia mantella non mi proteggeva per niente, non avevo con me il guscio antipioggia perciò rinunciai, restando ad aspettare gli amici al riparo a Dacant. Il tempo cambiò repentino e la giornata diventò serena e soleggiata. Invidiai i miei amici che tornarono dal giro qualche ora più tardi, ma ne approfittai per prendere il sole e godermi la vista del Re di Pietra. Più recentemente sono arrivata al rifugio durante il giro del Monviso , attraverso il Passo di San Chiaffredo ed il Passo Gallarino. Tanto per cambiare, stavamo lottando contro il tempo per raggiungere il rifugio Alpetto prima di essere colti da un temporale che ci stava inseguendo. In meno di mezz’ora, quando per fortuna eravamo tutti al riparo, iniziò a grandinare ed andò avanti per un bel pezzo. Tuttavia il giorno successivo era meravigliosamente sereno, e mi ricordo bene il sopraggiungere dell’alba che tingeva di rosa il Monviso, e le coltri di nuvole gialle ed arancioni sulla lontana pianura, mentre il rio dell’Alpetto tracciava una linea argentea in mezzo al pianoro per poi sparire in mezzo alla gola, appena visibile, e sprofondare in una cascata. E poi ricordo il lago avvolto dalle prime luci del mattino: erano i primi giorni di settembre, e intorno all’acqua i lunghi steli d’erba erano ormai secchi ed ondeggiavano sospinti da una brezza leggera. Il loro riflesso dorato unito alla luce radente colorava il liquido specchio di sfumature pastello calde e rassicuranti. Era difficile non rimanere ipnotizzati. Infine non mi dimentico dell’ospitalità dei gestori del rifugio, due persone semplici e cordiali capaci, con pochi gesti e parole, di far sentire chiunque a proprio agio, complice anche la magia del luogo. Un luogo genuino e permeato di storia, un’alternativa per chi vuole avvicinarsi al Monviso anche attraverso il suo passato e soprattutto su sentieri meno noti ed affollati, sicuri di trovare un angolo di atmosfera magica che ci fa sentire in pace con quel mondo che, più giù, si affanna per trovare il suo posto al sole.
Testo di Elena Cischino, tutti i diritti sono riservati
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