Era la notte del 15 agosto 1864 e la giovane donna non riusciva a prendere sonno. Era passato un anno, ed aveva scelto di affrontare di nuovo questi sentieri ripidi, lunghi, continui e senza tregua in un ambiente rude e solitario, risalendo quell’erto canale e superando pietraie instabili e tratti di nevaio. Tutto questo per approdare ancora una volta qui, in questo paesaggio severo ed arido, quasi alieno, al centro di una vasta pietraia di colore rosso inserita fra poderose bastionate rocciose, dove solo la presenza dei laghi ne smorzava i colori e la solitudine. Perché lei sognava il cielo e le stelle, e li voleva vicini sopra la sua testa, così vicini da poterli afferrare. E per realizzare il suo sogno doveva salire nel posto più alto, sulla vetta del Re di tutte quelle pietre che la circondavano: il Monviso. Era pomeriggio quando avevano iniziato a montare le tende, e l’idea di essere da lì a poco a contatto con la nuda roccia per riuscire successivamente a toccare il cielo la elettrizzava. Il giorno volgeva ormai alla fine, e la bellezza e l’asprezza di questo panorama illuminato dagli ultimi raggi del sole era tale da provocare in lei una sorta di sindrome di Stendhal.
Ora come non mai desiderava avere le ali per librarsi in alto ed aspettare che il sole morisse infuocando sfacciatamente il rosso e l’ocra delle pietre sotto di lei, e poi guardare dritto il disco della luna piena prima che questo si specchiasse nelle placide acque dei laghi, e infine salutare il nuovo giorno che tinge di rosa le montagne… Questi i desideri che balenavano nella sua mente mentre il suo sguardo catturava il grandioso palcoscenico di roccia. La brezza sottile sferzava il suo viso disperdendo le lacrime di commozione e liberando il cielo, così da intravedere la punta del Gigante di Pietra prima che il buio prendesse il sopravvento.
Era ormai notte. Alessandra era ancora sveglia. Sentiva il respiro lieve e regolare della giovane Cecilia, il russare profondo del reverendo e quello delle tre guide. Ascoltava battito del suo cuore, constatando che quelli erano gli unici suoni che rompevano l’immenso silenzio. Uscì dalla tenda. La luna, quasi piena, era alta nel cielo, ed illuminava algida il loro campo ed i laghi. Si sentì improvvisamente minuscola, quasi sopraffatta dalla primordiale solennità delle rocce, ed in quella estrema solitudine istintivamente pensò alle sue due figlie. Non lo aveva ancora fatto fino a quel momento, forse a causa della sua concentrazione e fatica per raggiungere questo posto. Il pensiero si faceva strada dentro di lei diventando quasi angoscia. Che cosa sarebbe successo se avesse fallito nella sua impresa non facendo più ritorno a casa? L’idea di non poter più riabbracciare le sue bambine da un lato la spaventava. Ma lei voleva toccare le stelle, catturarne la luce nel palmo della mano e mostrarla orgogliosa alle sue piccole. Quest’immagine si insinuò rapidamente nella sua testa, dominando su tutto il resto. Lei ce l’avrebbe fatta. Lei sarebbe tornata a casa. Con quell’impresa lei avrebbe dato un grande insegnamento alle proprie figlie: l’impegno e la forza volontà rendono possibili i sogni in cui crediamo. E i sogni non hanno età e non hanno sesso, volano al di sopra delle convenzioni sociali e delle epoche storiche. I sogni non muoiono mai.
Supportata da questo pensiero finalmente prese sonno. Immaginava il momento in cui, giunta sulla cima, avrebbe posato il suo sasso sulla sommità dell’ometto di pietra costruito da coloro che giunsero per primi lassù. Si sarebbe ricordata per sempre ogni minimo dettaglio di quel sasso, perché era il suo sasso, il suo contributo al raggiungimento una meta, consapevole del fatto che la vera forza non sarebbe stata la meta in sé, ma il viaggio per abbracciarla. Non le importava di non esserci arrivata per prima, ma semplicemente di esserci arrivata, di avercela fatta grazie alla sua determinazione ed alla sua volontà di riprovarci dopo un primo tentativo fallito che, se fosse andato a buon fine, l’avrebbe consacrata pioniera di questa montagna, davanti a Quintino Sella ed alla sua spedizione in un’Italia appena unificata.
Solo una donna poteva riuscire a vedere il senso delle cose con questo spirito, al di sopra del mero antagonismo tipicamente maschile. Perché da sempre, solo una donna sa trasmettere la cultura della generosità, del buonsenso, della tolleranza e sa far parlare insieme il cuore e la ragione, per via dell’eredità atavica di un ruolo che l’ha vista governare la casa e guidare la vita delle famiglie consumando i propri giorni al servizio degli altri, rendendosi presenza indispensabile con il dono della propria esperienza, tranquillità d’animo, fatica e saggezza.
Nei secoli le donne hanno saputo fare di necessità virtù, sviluppando tali caratteristiche che le hanno rese di fatto l’anello forte di una società che invece le relegava a un ruolo subalterno, ad una vita sacrificata, in ombra rispetto all’uomo. Nei contesti rurali delle campagne e dei monti, che costituivano la maggior parte della realtà in quell’Italia appena nata, le donne sapevano cavarsela da sole anche nei luoghi più isolati, con la gerla sulle spalle lungo i ripidi sentieri, col rastrello sui pendii a raccogliere il fieno, nelle stalle col secchio a mungere le vacche, nei campi a raccogliere patate. Esse erano di fatto la spina dorsale della società rompendo la terra con la zappa e facendo crescere il grano, tenendo unita la famiglia ed allevando la prole.
Questo era lo scenario di quegli anni, nel quale Alessandra era una donna colta, e moderna, ma soprattutto era una donna molto coraggiosa, in quanto capace di imporsi rispetto a convinzioni e a leggi non scritte ma consolidate, che in ogni ceto tendevano a relegare le donne a un ruolo decisamente minore.
L’alta montagna, con l’asprezza dei suoi paesaggi era tradizionalmente associata alla forza fisica e di carattere. Era considerata una cosa da uomini, insomma. Perciò l’impresa alpinistica di questa donna, poco più che ventenne e mamma, era davvero degna di nota.
Ma i pregiudizi sono duri a morire, e la scalata del Monviso di Alessandra venne minimizzata o addirittura dileggiata, tant’è che pochi giorni dopo, “La Sentinella delle Alpi”, giornale cuneese, scrisse: “Ora che è provato che perfin le donne raggiunsero quella punta culminante, che fino all’anno scorso si credette inaccessibile, chi sarà quel touriste che si perderà di coraggio all’atto della prova? “.
Poi il tempo passò, e ci vollero quasi centocinquant’anni e l’impegno dei discendenti di Alessandra per ricordare la sua impresa ed il suo nome intitolando a lei il bivacco costruito nello spettacolare vallone delle Fiorciolline, ad oltre 2800 metri di quota, nel punto in cui ella e i suoi compagni montarono il campo base. La piccola costruzione è come un modulo spaziale giallo e grigio atterrato su Marte, per via dei colori e dell’aspra solitudine del luogo.
Chi giunge lassù e contempla le rocce non può rimanere immune al senso di libertà e di pace che la montagna sa offrire da sempre a tutti. Uomini e donne. Indistintamente.
Testo ed immagini di Elena Cischino, tutti i diritti sono riservati.
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