Il buio non è mai completamente tale per gli occhi che vogliono vedere. Talvolta il retaggio ancestrale che fa amplificare i nostri sensi in condizioni ambientali difficili riesce ancora ad emergere, dimostrando quanto noi siamo parte della natura, sebbene troppo spesso ce ne dimentichiamo. Ciò accade quando camminiamo nel bosco di notte. Di per sé questa situazione è assai inconsueta, se non si va oltre la barriera della tradizione – si pensi a quanto accade in molte delle più famose fiabe la notte nei boschi, o ai racconti popolari sugli spiriti che qui dimorano.
E’ vero, il bosco di notte racchiude molte magie, ma nessuna di esse è legata a favole o leggende: semplicemente è uno dei tanti meravigliosi incantesimi che la natura, se rispettata, ci dona incondizionatamente. Intanto fra il giorno e la notte esiste il crepuscolo, che mi piace immaginare come una lunga conversazione fra il sole ormai tramontato e gli altri astri, dapprima le stelle e poi la luna.
La luce non muore mai del tutto, e quando dorme si riflette, creando baluginamenti e bagliori che possono illuminare in maniera differente le cose intorno a noi. Nel bosco, gli alberi alti e lontani si protendono scurissimi verso il cielo per baciare le stelle, quelli più vicini si evidenziano ai nostri occhi che via via si abituano all’oscurità attraverso le parti chiare della corteccia e dei rami. Il pietrisco dei sentieri, le vecchie e grigie radici scalzate, qualche sparuto cardo di San Carlo si delineano quel tanto che basta a farci intuire dove posare i nostri passi. E quando la luna è abbastanza alta nel cielo, ecco che le rocce delle montagne diventano d’argento, completando la scenografia del nostro cammino, e rivelando molteplici sagome di tanti altri alberi che prima si confondevano con esse nella scura profondità di campo.
Questa luminescenza quasi romantica infonde inconsapevolmente la sicurezza di avere sotto controllo il senso della vista. Ora si può acuire il senso dell’udito, concentrandosi su suoni e rumori che fino a poco prima venivano automaticamente filtrati per focalizzarsi sul vedere. E’ proprio in questo momento che si realizza che di notte, nel bosco, non siamo soli. Da qualche parte degli occhi ci scrutano, degli orecchi ci sentono, dei nasi ci fiutano. Tali presenze si palesano attraverso variegate sonorità e richiami che si inseguono sui pendii e sembrano perdersi nelle profondità del bosco, per poi ripetersi in altre zone e smorzarsi nuovamente. Fra tutti i suoni, nel primo autunno ce n’è uno che emerge su tutti gli altri. Dapprima è come un rauco tossire, poi si trasforma repentino in un lungo vocalizzo basso e potente. E’ il bramito del cervo, il richiamo d’amore che gli esemplari maschi di questo splendido animale emettono riempiendo il bosco di singolari versi, soprattutto dal tramonto all’alba.
Il bramito è la prima parte del rituale per la conquista di un gruppo di individui femmina. I maschi dominanti lo seguono bramendo, per evidenziare la propria forza fisica e tenere lontani altri pretendenti. Tanto più il bramito è forte, tanto più deve esserlo il cervo che lo emette. Due antagonisti si studiano inizialmente bramendosi addosso, poi inizia una sorta di danza che permette ai pretendenti di studiarsi nei dettagli. Se uno dei due pensa di poter dominare l’altro, allora avviene il vero e proprio combattimento a suon di testate, che alle nostre orecchie giunge come il rumore secco di grossi rami spezzati. I due maschi continuano la loro battaglia fino a quando uno dei due capisce di essere meno forte e si arrende all’altro. Udire il bramito di notte incute inizialmente un senso di inquietudine, come tutte le cose inaspettate che non si conoscono e che subito non si vedono. Il verso rauco e quasi selvaggio ci rende guardinghi e tesi alla ricerca del punto preciso da cui esso proviene, quasi a voler verificare se esiste fra noi ed esso una sufficiente distanza di sicurezza. Poi, rassicurati dal fatto che a bramire è sì un animale di grossa taglia, ma comunque non un predatore, ci rilassiamo e portiamo la nostra attenzione ad immaginarci alcuni particolari sul cervo cui questa voce appartiene.
Udirlo senza vederlo ma immaginarlo, liberi di disegnarne i dettagli nella nostra mente, affascinati dall’idea della sua leggiadra maestosità, della sua fiera eleganza e soprattutto della sua estrema libertà, lui figlio dell’infinito sospeso fra cielo e terra dove è nato. I raggi lunari lambiscono le fronde degli alberi mossi da un vento leggero. I fruscii delle foglie si mescolano ai bramiti che riempiono l’aria. Da lontano, qualche isolato latrato di un cane da pastore rompe quest’armonia.
La nostra vista ed il nostro udito sono ormai amplificati. Ora è il nostro olfatto ad entrare in gioco. Il pungente odore delle greggi lontane giunge alle narici sospinto dalla brezza notturna. L’umidità stagnante dell’erba emana un effluvio che si unisce all’aroma dei sassi e del terreno bagnati. Le fronde dei larici diffondono il loro profumo di resina così come le dolciastre bacche del sorbo rilasciano il loro particolare sentore. Tuttavia l’afrore dei cervi lontani è per noi impossibile da recepire, ma sicuramente il nostro odore umano giunge fino ad essi. Fra non molto i primi segnali dell’aurora si apriranno un varco a Est nel cielo ancora scuro ed un nuovo giorno inizierà.
La luce del sole illuminerà il bosco, poco a poco la luna impallidirà e, con un po’ di fortuna e di cammino, sarà possibile vedere i cervi che sapranno stupirci con la loro fierezza, superando l’immagine di essi che ci siamo raffigurati sentendone il bramito nella notte.
Testo ed immagini di Elena Cischino, tutti i diritti sono riservati.
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