Esiste un momento in montagna in cui il tempo sembra sospeso fra inverno e primavera. In quest’atmosfera surreale di apparente stasi, la neve ghiacciata del mattino invita ancora a compiere gli ultimi percorsi di sci alpinismo e le ultime ciaspolate, ma l’aria si è già fatta più tiepida, e le marmotte lanciano i loro primi timidi fischi, aprendosi la via anche in mezzo al bianco, curiose di esplorare l’ambiente che le circonda dopo il lungo letargo. Nelle zone maggiormente assolate la neve è già in parte sciolta, e migliaia di crochi viola e bianchi sbocciano con silenziosa esuberanza fra l’erba che, provata dal freddo invernale, stenta ancora a rinverdire, mentre i torrenti riprendono vigore aprendosi la via fra lo spesso strato bianco, modellandolo con curve sinuose che lo rendono simile ad una scultura postmoderna. Il mutevole cielo della stagione mite che avanza crea giochi di luce cangianti sulla neve, e fa brillare i corsi d’acqua, tanto che la spuma e le gocce diventano per un istante come diamanti in movimento, esaltando il giallo vivo delle infiorescenze dei tanti salici disseminati lungo i torrenti. I rami spogli dei larici si popolano di nuove, piccole pigne fucsia. Ovunque è un germogliare ed un rifiorire, un aprirsi di nuovo alla vita perché, nonostante la neve, la primavera è tornata e poco a poco prenderà il sopravvento su tutto, anche sull’inverno che, neppure troppo in alto sembra tutt’ora resistere, quasi come se le cime delle montagne fossero diffidenti alla ripresa della vita in atto. Tutte le cose che sfuggono rapidamente chiedono subito di essere inseguite, perciò ho approfittato di una mezza giornata di tregua meteorologica per salire al mattino presto nel vallone di Bellino ed osservare questa effimera fase di transizione stagionale. Desideravo scorgere animali selvatici pascolare a quote ancora basse per le loro comuni abitudini, e so che in questa zona c’è una buona probabilità di incontrarli. Inoltre mi piaceva l’opportunità di vedere le marmotte muoversi goffamente in mezzo alla neve. Ho avuto la fortuna di poter osservare tutto questo passeggiando sulle ciaspole fino al Pian Ceiol, muovendomi fra antiche borgate e scorci sull’imponente Rocca Senghi ingentiliti dai numerosissimi crochi e dalle fioriture dei salici. Viola su ocra, giallo su bianco. Contrasti cromatici acuiti o smorzati
dalla luce del sole che andava e veniva. Mentre camminavo mi veniva in mente la canzone “Alive and kicking” dei Simple Minds. Mi sentivo, come recita il titolo, “viva e vegeta” e man mano che salivo era come se le mie energie aumentassero, quasi come se fossero alimentate da tutta questa bellezza. Ogni segno, anche il più piccolo, lasciava percepire la forza superiore di un Dio amante della vita, che attraverso questi dettagli sa offrirci profonde opportunità di riflessione al di fuori degli schemi precostituiti della nostra realtà quotidiana. Nulla è lasciato al caso, neppure il più umile fiore ed il punto in cui esso sboccia. Di fronte a tutto questo non potevo far altro che rispondere con un ammirato silenzio, per dare spazio al mio pensiero, per dare un senso alla mia presenza qui ed in questo momento di Risveglio, e raccogliere i particolari che la natura instancabile mi proponeva, nel misterioso ripetersi e rinnovarsi di un mondo al quale l’occhio dedica purtroppo poca attenzione. Con la macchina fotografica selezionavo frammenti di questo percorso, per mostrarli alle persone care, ed anche per aiutarmi a ricordare ciò che vedevo e che mi faceva stare così bene. Lungo il percorso volgevo lo sguardo verso i pendii di Rocca Senghi, cercando di intuire qualche movimento, colore su colore. Dopo un po’ scorgevo un camoscio solitario brucare l’erba punteggiata dai crochi, che velocemente si muoveva in direzione del vallone del Rui, fino a sparire dalla mia vista. Un grigio baluardo roccioso, quasi una quinta scura su un palcoscenico ancora completamente bianco, annunciava l’arrivo imminente al Pian Ceiol. L’arrivo nel pianoro è stato emozionante: neve ovunque, tre piccole baite semisepolte ed un anfiteatro di rocce tutt’intorno, oltre alla Rocca Senghi. Ma soprattutto il silenzio, rotto soltanto dai fischi delle marmotte che con la loro
minuscola presenza scura macchiavano il manto nevoso. Alle mie spalle, nelle poche zone esposte al sole, copiose fioriture di crochi. Mi avvicinavo pian piano alle marmotte: ancora rallentate nei movimenti dal lungo digiuno invernale e curiose di natura, mi permettevano di osservarle da vicino prima che segnalassero la mia presenza con acuti fischi e rientrassero nei loro cunicoli. Restavo un po’ qui a godermi l‘inverno di fronte agli occhi e la primavera dietro di me, immergendomi nella transizione fra le due stagioni. Respiravo letteralmente questa meraviglia, poi a malincuore riprendevo la strada del ritorno: scure e dense nubi verso la pianura mi incitavano a rientrare per non trovarmi sotto la pioggia. Rientrando, altre marmotte – questa volta nelle zone già fiorite – si lasciavano ammirare prima di nascondersi. Infine l’ultimo regalo: un branco di camosci e, poco più in alto, un gruppo di stambecchi che brucavano la prima erba vicino alla base della Rocca Senghi. Nonostante il rischio di pioggia, non potevo non fermarmi . Osservando più attentamente, potevo scorgere alcuni giovani stambecchi maschi che lottavano baldanzosi, preparandosi alla stagione degli amori per l’inverno successivo, fra salti e colpi di corna. Una femmina stava lì a guardarli un po’ distrattamente, per poi andarsene. Il sole stava ormai sparendo dietro alle nubi. Affrettando il passo, rientravo velocemente, felice di questa mattinata piena di emozioni ed immagini bellissime.
Immagini nel testo di Elena Cischino
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